Risorse umane, consapevolezza e welfare aziendale, questioni di moda? A volte sì, ma qualcosa si muove.
Era il ‘personale’, quello che lavorava nelle nostre aziende fino a pochi anni fa, una definizione che era del tutto impersonale e marcava una distanza fra datori di lavoro e chi il lavoro lo svolgeva.
Ora si chiamano ‘risorse umane’ e almeno in questo un piccolo, (anzi piccolissimo), passo avanti è stato fatto, almeno ora chi lavora ha assunto un ‘valore’, è diventato appunto una ‘risorsa’.
C’è qualcosa di spaventoso in questo processo, per capire che chi lavora sia una risorsa ci abbiamo messo quanti anni? Un po’ più di duemila? Non è assurdo? E non è ancora tutto.
Ora siamo agli albori di una linea di demarcazione che dopo aver riconosciuto fra le varie risorse aziendali anche il valore degli umani che ci lavorano,
(questo è il secondo aspetto … perché il valore umano del lavoro è stato trascurato per secoli),
inizia la risposta delle aziende più ‘avvedute’ ai bisogni che quelle ‘risorse umane’ hanno.
Già, perché oggi gli umani che lavorano hanno delle esigenze, (come se ieri non le avessero avute), molto spesso a quelle esigenze dovrebbero rispondere organizzazioni diverse dalle aziende. Queste ultime hanno come scopo principale la produzione di utili, ricchezza che poi viene suddivisa fra tutti i lavoratori e spesso su un vasto indotto locale, nazionale, o globale a seconda delle dimensioni dell’impresa.
Ed eccoci al ‘welfare aziendale’ ad oggi ancora una corrente di pensiero, per molti difficile da capire se sia un costo, un investimento, o un’opera di beneficienza.
Facciamo un ragionamento a rovescio: meglio una persona al lavoro col sorriso, o quanto più possibile felice, o il suo contrario?
Già, ma chi ha mai insegnato che il lavoro può e dovrebbe essere un piacere?